martedì 6 gennaio 2015

Capitoli finali.




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I tre ragazzi si erano ritrovati al solito bar per l’aperitivo del sabato sera. Bevevano cercando di carburare il più possibile per non sfigurare in mezzo alle varie compagnie di maschi standardizzati e femmine appariscenti, amalgamandosi alla perfezione in quella crème di vacuità. Galleggiavano tranquilli nel mare di discorsi futili che solitamente fanno da sottofondo all’happy hour modaiolo, ma una volta finita la carburazione e svuotatosi il bar, era sopraggiunta la noia, cosicché Matteo, il leader del gruppetto, aveva proposto una capatina al cimitero.
   Passate da poco le 23 di sabato 13 maggio, Matteo, Gianni e Sandrino, ventenni pisani, stavano rompendo e imbrattando con vernice spray le lapidi del camposanto di Pontedera, sfogando con il vandalismo più cretino le loro frustrazioni, nell’impossibile tentativo di colmare il vuoto abissale che avevano dentro.
   A un certo punto, Matteo e Sandrino videro che Gianni era rimasto paralizzato ad osservare qualcosa alle loro spalle. Si voltarono lentamente e lo videro…
   Gennaro Gargiulo era impalato di fianco a una lapide. Il tubo usato era conficcato nel terreno e passando per l’ano della povera vittima gli fuoriusciva dalla bocca. La gabbia toracica gli era stata aperta segando a metà lo sterno e al suo interno, asportati polmoni e cuore, era posizionato un teschio con due ceri accesi inseriti nelle cavità oculari. Le gambe nude erano tagliuzzate in verticale con tagli paralleli profondi e regolari che andavano dagli inguini alle caviglie.
   “Ero ancora lì al cimitero quando vidi arrivare quei tre sfigatelli” spiegò Saul. “Avevo appena finito la mia opera e per loro fortuna la gastrite era già passata, altrimenti è probabile che avrei sistemato anche loro dopo aver visto cosa stavano combinando. Li osservai di nascosto, poi quando si accorsero di Gargiulo impalato, me la filai. Credo se la siano data a gambe anche loro poco dopo, e per non dover sopportare il peso di quella scoperta decisero di andare alla prima stazione dei carabinieri che incontrarono. Raccontarono che erano andati al cimitero solo per provare l’ebbrezza di osservare le tombe illuminate nella notte: non volevano fare niente di male e si erano accorti subito del vandalismo subito dalle lapidi. In un secondo momento avevano scoperto il cadavere di Gennaro Gargiulo.
“I giornali attribuirino l’ennesimo omicidio al Pittore e iniziò così la gara tra i luminari della psiche alla ricerca del movente che aveva spinto il mostro non solo a uccidere, ma anche a distruggere tombe. Sinceramente mi sarebbe dispiaciuto prendere la colpa per una cosa così stupida; per fortuna gli inquirenti fecero presto chiarezza e i tre ragazzi crollarono in una confessione simultanea.”
   “Se non sbaglio Gargiulo era un finanziere. Cosa ti aveva fatto per scatenare la gastrite?”
   “Sì, Gennaro Gargiulo era un finanziere, conosciuto in tutta Pisa e dintorni per la sua intransigenza. Nel ’92 ero rientrato da poco in Italia quando mi fermò per un controllo stradale. Avevo con me pochi grammi di marijuana, la trovò nascosta sotto un coprisedile e mi portò in caserma. Lì mi sottopose a un duro interrogatorio, credendo forse che fossi uno spacciatore: di certo il mio look trasandato non mi aiutava! Mi insultò, mi derise, mi smontò – danneggiandola – la macchina per vedere se nascondevo altra droga. Prima di lasciarmi andare, disse: Ora dovrai presentarti in prefettura per un colloquio con un’assistente sociale, te la cavi quindi con una piccola ammonizione purtroppo… I fricchettoni del cazzo come te dovrebbero essere sbattuti in gabbia a mangiare scarafaggi per anni!
“In quel momento non mi capacitavo di tanto livore; solo tempo dopo venni a sapere che suo figlio era morto di overdose. Povero Gargiulo… un altro di quei poveri stronzi che pensano che la colpa sia della droga e non del Sistema o addirittura loro! Ad ogni modo la mia gastrite non ebbe pietà del dramma filiale del finanziere. Fu così che molti anni dopo realizzai la mia migliore opera d’arte.”
   Di questa conservava cinque foto, il cui commento non necessita dell’uso di parole!



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Nota postuma: questo capitolo è stato oggetto di forti contrasti interiori, ma ribadendo il discorso che qui l’editor sono io, alla fine ho deciso di inserirlo. Giordano Fagioli direbbe probabilmente che “non ci sta a dire un cazzo!”: in parte concordo. Ma i libri, come la vita – e sto per dire la banalità del secolo – sono fatti anche di capitoli “apparentemente” inutili. Apparentemente! Se col tempo si impara la saggezza e l’arte di leggere (i dettagli) si riuscirà ad apprezzare anche il piccolo neo. Anzi, in molti casi il neo diventa fonte di grande fascino. Ho già blaterato troppo…


Perché Saul aveva investigato per conto suo sull’infedeltà di Barbara e nel bel mezzo della cronistoria della sua attività di Pittore mi aveva spiattellato in faccia il tradimento? PERCHE’? Me lo chiedevo nei momenti di pausa, rari, che il suo racconto concedeva.
   Non molto tempo fa, ho letto queste parole in un libro intitolato “La Grande Inculata”, di un autore emergente a me caro:

Sapere, sapere, sapere… viviamo per sapere.
  Ma sapere cosa?
Anche il più intelligente degli uomini,
il più grande filosofo o intellettuale,
l’artista più sublime,
morirà senza sapere.
Chiunque creda di sapere,
arriverà a esalare l’ultimo respiro
senza in realtà aver mai saputo nulla.

   Quelle poche righe mi piacquero tanto che le scrissi su un foglio e le incorniciai in un quadretto che fino a qualche tempo fa campeggiava sul muro dietro la mia scrivania alla Cisco Ribelle. Sono l’emblema dell’impossibile lotta dell’uomo alla ricerca di un Senso metafisico della vita.
   Ecco, durante una di quelle pause, ebbi la consapevolezza che se avessi continuato a chiedermi “perché?” avrei seriamente rischiato di impazzire. Valeva la pena correre il rischio?
   Perché? Perché? Perché? A quanti
“PERCHE’?”
bisogna rispondere prima di accendere una piccola luce nel buio?



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“… e poi è finito anche il tempo di uccidere. Come e perché è finito te lo spiegherò tra non molto, intanto sappi che l’ultima vittima è stata il mio ex amico Michele Bettarini, ucciso una settimana dopo Gargiulo.
“Se questo omicidio non ha messo gli inquirenti sulle mie tracce, credo che non mi prenderanno più, ma ormai ha poca importanza…”
   “Vuoi dire che non ti importa di passare il resto della tua vita dietro le sbarre?”
   “Esattamente, non mi importa. Ti spiegherò anche questo, prima però fammi raccontare di Michele…
“Tra le tante sfortune che ho avuto nella vita, c’è stata anche quella di non avere mai avuto un amico. Forse è stata anche colpa mia, del mio carattere, ma ho conosciuto gente mediocre e superficiale in materia di rapporti umani, tanto che sono giunto a ritenere l’amicizia un sentimento ipocrita, falso. Prima che si sviluppasse in me questo pessimismo, c’era però lui, Michele Bettarini. Siamo cresciuti insieme: era il mio compagno di giochi d’infanzia e fino alle scuole superiori siamo sempre stati compagni di banco. Avevamo un ottimo feeling anche perché sembrava diverso dagli altri pecoroni del gregge, più sensibile e con una maturità da persona più grande della sua età. Mi fidavo ciecamente di lui, lo rispettavo e stimavo molto, e la cosa era reciproca.
“Verso la fine del quarto anno di liceo, si mise insieme a una nostra compagna di classe – Beatrice Virgili – di cui anch’io ero invaghito. Non ero geloso però, anzi, ero contento per lui. Un giorno, uno dei primi giorni di scuola del quinto e ultimo anno, mi chiamò in disparte e con una faccia di bronzo imperturbabile, come se neanche ci conoscessimo da una vita, mi disse: “Scusa Saul, ma preferirei non avere più niente a che fare con te. Continuare a frequentarti significherebbe la mia morte sociale, sia agli occhi di Bea sia agli occhi degli altri. Perdonami…”. Rimasi impietrito. Anni di amicizia che credevo vera e sincera venivano cestinati così, senza un motivo logico, o forse per un motivo fin troppo logico: se stai con lo sfigato sei uno sfigato! Triste assioma spesso causa di emarginazione già tra i bambini.
“Addirittura si inserì perfettamente nella compagnia di bulletti che mi prendeva spesso in mezzo e diventò uno dei più feroci nel farmi gli scherzi. Nel giro di pochi mesi il nostro rapporto cambiò radicalmente, tanto che Michele mi rivolgeva la parola solo per prendermi in giro davanti a tutti. Divenne il mio aguzzino per tutto l’ultimo anno trascorso al liceo classico “Mario Sciaccaluga” di Pisa.”
   “Povero Saul!” esclamai immaginandomi un Saul adolescente esposto al pubblico ludibrio.
   “Dispiace solo che una ventina d’anni più tardi si era fatto una famiglia… Non con Beatrice però: la loro storia finì un paio d’anni dopo la fine del liceo. Ora era sposato con una matrona più vecchia di lui di dieci anni e aveva due figli di otto e dieci anni.
“L’ho aspettato sotto casa al ritorno dal lavoro. Era diventato quello che sospettavo, un triste travet senza pretese in un ufficio di non ricordo cosa. Stava per infilare le chiavi nella porta d’ingresso quando lo chiamai. “Michele, ti ricordi di me?!” gli dissi. “Saul!” esclamò. Quel che vidi nel suo sguardo per un attimo mi bloccò; forse era autosuggestione, ma nei suoi occhi lessi qualcosa che interpretai come “Sapevo che eri tu il Pittore! Sapevo che prima o poi saresti arrivato!”. Sparai un colpo alla nuca e uno al cuore.”
   Fece una lunga pausa, poi mi chiese se avevo ancora della birra in frigo. Andai a prendere le ultime due Peroni rimaste e tornai a sedermi di fianco a lui.
   “Chissà se io e te saremmo potuti diventare grandi amici se fossimo cresciuti insieme!?” si chiese con lo sguardo malinconico perso nel vuoto.
   Accese una sigaretta, bevve una lunga sorsata di birra e dopo aver trattenuto a stento un rutto, disse:
   “Sai Pippo, ucciso Michele, per la prima volta piansi dopo aver placato la gastrite.”



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Il pomeriggio scivolava veloce verso il crepuscolo. Il frigo era vuoto e il mio stomaco pure, così chiesi a Saul di interrompere un momento la narrazione per scendere al negozio pakistano di alimentari sotto casa a comprare una confezione di birre e qualcosa da mettere sotto i denti. Tornai dopo mezz’ora.
   “Avevo dimenticato che oggi è Santo Stefano e i negozi sono chiusi” dissi rincasando. “Per fortuna il vicino della porta qui a lato – che fa il barista – ha sempre qualche birra di “contrabbando” da passarmi nei momenti di bisogno. Se hai fame però, devi accontentarti di sgranocchiare delle patatine in sacchetto o in alternativa assaggiare un minestrone di verdure che mi è avanzato nel freezer.”
   “Grazie, non ho fame.”
   “Ha iniziato a nevicare sai?!”
   Alla notizia Saul si alzò dal divano e andò alla finestra. Grossi fiocchi scendevano dal cielo e presto avrebbero ricoperto strade e tetti, prendendo alla sprovvista i mezzi spargisale e spazzaneve.
   “Che bello!” esclamò. “Mi emoziono sempre quando vedo nevicare. La neve mi fa tornare indietro a quando ancora credevo nelle persone e avevo dei sogni!”
   Quell’uomo mi sorprendeva continuamente; mentre era lì alla finestra che guardava trasognato la città coprirsi di bianco, ebbi la certezza che una volta uscito dall’appartamento, la mia vita sarebbe stata completamente diversa.
   “Che ne dici di stappare la birra della staffa?” disse tornando ad accomodarsi sul divano.
   Lo accontentai e mi sedetti al suo fianco.



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“Ricordo benissimo il giorno che ha cambiato la mia vita senza più possibilità di tornare indietro o prendere altre strade. Era lunedì 5 giugno di quest’anno e mi trovavo al liceo “Mario Sciaccaluga”. Sì Pippo caro, il mio liceo classico. Ero stato invitato dal preside Felice Gonfiantini – che conoscevo da anni per essere stato il mio professore di italiano, tra l’altro molto apprezzato – a tenere un reading davanti a tutte e dodici le classi che ospitava la struttura scolastica, trovandomi di fronte centinaia di ragazzi dai quattordici ai diciotto vent’anni.
“All’inizio ero stato riluttante all’idea, ma il vecchio professor Gonfiantini mi aveva convinto con il suo garbo e la sua simpatia. Per molti sei un mito caro Saul. Sei il sogno diventato realtà, colui che con l’impegno e la passione è riuscito a emergere dal grigiore generale. Sono molto orgoglioso di essere stato il tuo professore di italiano; la tua presenza potrà accendere la miccia che farà deflagrare definitivamente l’amore per la letteratura che ognuno di questi ragazzi fagocitati dalla modernità dovrebbe avere. Così mi disse.
“C’era un entusiasmo indescrivibile nella palestra della scuola dove si teneva il reading, accentuato probabilmente dalle imminenti vacanze estive. Quando feci il mio ingresso, i ragazzi mi accolsero con una standing ovation accompagnata da un coro: “Bar-tez-za-ghi-nu-me-ro-u-no Bar-tez-za-ghi-nu-me-ro-u-no Bar-tez-za-ghi-nu-me-ro-u-no…” ripetevano. Ero sorpreso e quasi imbarazzato da tanto calore… (Calore che avrei voluto provare in ben altre situazioni nella vita…) Molti avevano con sé una copia di “Sbronze road”, o di “Ulcera”, o di entrambi i best seller, da farmi autografare al termine dell’intervento.
“Gonfiantini placò a stento l’euforia con reiterati “per favore ragazzi” sibilati al microfono. Al tavolo, sistemato sul lato ovest della palestra, eravamo seduti io, Gonfiantini e due professoresse, credo una di latino e una di italiano. Era la prima volta che parlavo davanti a una folla di soli giovani e non avevo preparato nessun discorso, così cercai di improvvisare partendo – dopo il preludio del preside – col raccontare alcuni aneddoti della mia trafila scolastica allo “Sciaccaluga”. Nonostante i ricordi spiacevoli soverchiassero quelli piacevoli, qualche simpatica storiella nostalgica l’avevo anch’io nel repertorio. Parlai poi dell’importanza di fare esperienze di viaggio, inteso non solo come viaggio fisico ma anche mentale e spirituale; di fare le cose con impegno e passione; di affinare il proprio talento; di non cadere nelle imboscate del Sistema; di mantenere la mente elastica con la lettura; di saper leggere non solo i libri ma anche gli ambienti e le persone; di saper ascoltare il silenzio; di essere liberi, indipendenti e curiosi; di non giudicare senza prima conoscere, e anche dopo aver conosciuto di stare molto attenti ai giudizi; di amare… Forse nel complesso mi lasciai andare a un filo di retorica, ma riuscii a non annoiare nessuno con la mia semplice filosofia. Lessi alcune pagine di “Sbronze road” e di “Ulcera”, persino un paio di paragrafi di “Se”; venne infine il momento, introdotto da Gonfiantini, delle domande. Mentre rispondevo, all’improvviso… il black out! Non credo fosse colpa delle domande: i ragazzi ponevano quesiti mediamente  interessanti, almeno non banali, fatto sta che la capacità che posseggo di leggere le anime si impossessò di me. Avvenne tutto in pochi secondi: vidi quei giovani attraverso il filtro del mio “potere”, della mia “lente d’ingrandimento animale” e… vidi il Vuoto. Le loro anime erano spente, buie, morte. Qualcuna splendeva, certo. Di queste rare perle ne intravidi forse una mezza dozzina tra i duecentocinquanta ragazzi presenti. Quella visione mi diede la consapevolezza della sconfitta.”
   “Sconfitta?” lo interruppi. “Di chi? Di cosa?”
   “Della società, della famiglia, dell’istituzione scolastica. E mia, in quanto singolo individuo, pertanto pedina debolissima sulla scacchiera, vittima sacrificale in una battaglia persa in partenza.”
   Fece una pausa cercando una sigaretta, ma notando che il pacchetto era vuoto, lo accartocciò e proseguì:
   “Cosa potevo fare per liberarmi dalle catene e allontanare quel senso di annientamento? Scrivere serviva a poco, infatti avevo smesso. Per chi scrivere poi? Cosa scrivi quando la lettura diventa un hobby per un’elite prossima all’estinzione? I giovani oggi non leggono… Intendiamoci: leggono, ma non sanno quel che leggono. Il progresso sta uccidendo l’intelligenza e anche la cultura. “
   Bevve un sorso di birra riflettendo sul discorso che stava imbastendo. Proseguì:
   “Anni fa mi sembra di averti detto che non si scrive per se stessi (nemmeno i diari, aggiungo ora, si scrivono per se stessi), bensì per la Figa. In un certo senso scherzavo, ma ero anche molto serio. Metaforicamente parlando, se la Figa rappresenta la Vita, si scrive per lasciare un segno nella vita. Ma se la Figa è irrimediabilmente frigida e sterile… Se l’uomo è sempre meno individuo pensante e sempre più massa confusa, e in quanto massa, priva di identità, SCRIVERE E’ COMBATTERE CONTRO I MULINI A VENTO!”
   Altro sorso di birra e altra pausa.
   “E uccidere? Uguale. Capivo in quegli istanti che nemmeno uccidere aveva un senso nella Grande Guerra contro l’imbecillità umana. Serviva solo a me come palliativo momentaneo ma non serviva certo ad accendere anime spente. Che il Destino faccia il suo corso allora! Per Destino non intendo l’ipotetica mano di un Dio che decide le nostre mosse, bada bene! Tu non lo vedi, ma c’è un sentiero invisibile che percorriamo, un sentiero tracciato addirittura prima del nostro concepimento e che prosegue anche dopo la nostra morte. Il mio Destino mi porta ora a bussare alla porta dell’Infinito.
“Finito il reading uscii dal liceo Mario Sciaccaluga di Pisa totalmente spossato e con un dolore di stomaco terribile, come mai avevo avuto. Portavo con me una decisione: avrei lasciato, come mi aveva ammonito la Voce anni addietro, che il dolore si trasformasse in tumore. Dal 5 giugno la gastrite sta velocemente evolvendo in cancro. Ho semplicemente seguito il sentiero e adesso morirò, conscio di lasciare un mondo vuoto, sicuramente più vuoto di quel mondo che c’è o non c’è dopo che avrò superato il “momento supremo”. Aspetto quel momento con serenità. Mi sono arreso dopo aver massacrato i miei fantasmi, ma i fantasmi non muoiono.”



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Come un sipario immaginario il silenzio calò su di noi. Saul si alzò dal divano e mi tese la mano; io feci lo stesso ma anziché dargli la mano ebbi l’impulso di abbracciarlo. Ci abbracciammo.
   “Allora… addio!” dissi.
   “Addio!”
   Addio, le ultime parole che Saul Bartezzaghi pronunciò. Prima di scendere le scale che lo avrebbero portato nell’androne e quindi in strada, si girò un’ultima volta, mi sorrise e strizzandomi l’occhio si accomiatò per sempre da me.
   Mi affacciai alla finestra e lo vidi attraversare via Zamboni ricoperta dalla neve. Nevicava ancora copiosamente; osservai le orme che si era lasciato alle spalle sparire velocemente, ricoperte da nuovi strati di bianco.
   Mi coricai supino sul divano, frastornato da quelle ventiquattr’ore kafkiane passate in compagnia del Pittore. Erano le 19 e qualche minuto.
   “E adesso?” mi chiesi ad alta voce.
   Poco dopo mi addormentai e fu un sonno travagliato pieno di sogni.



32


Il giorno dopo sarei dovuto partire con Barbara per Parigi. Partii solo.
   La notte di San Silvestro ero agli Champs-Elysées a provare di divertirmi; nonostante avessi bevuto parecchio, non ero per nulla euforico. Intorno a me c’erano migliaia di persone, eppure non mi ero mai sentito così solo in vita mia. Sentivo la mancanza di qualcuno e quel qualcuno non era Barbara. Possibile invece che quel qualcuno fosse Saul? Possibile sentirsi orfani di uno che squarta il corpo di un altro essere umano con la stessa facilità con cui scrive il capitolo di un libro? Ebbene sì, Saul Bartezzaghi mi mancava, ma Saul Bartezzaghi era morto quel giorno stesso. Lo venni a sapere il primo gennaio sbirciando i titoli dei giornali davanti a un’edicola. Era molto famoso in Francia, i suoi libri avevano avuto più fortuna che in Italia, e “le Figaro” gli dedicava un trafiletto con foto in copertina. Rimasi basito, anche perché pochi giorni prima il suo aspetto non sembrava quello di un malato terminale; non pensavo che il tumore fosse in un così avanzato stadio.
   Comprai il giornale e andai a sedermi su una panchina lungo la Senna, poco distante da dove avevo l’albergo. Non conoscendo il francese, mi limitai ad osservare la foto che ritraeva un Saul più giovane in una posa profetica: stringeva una penna nel pugno come fosse un coltello e nell’altra mano teneva un foglio, pronto per essere… assassinato!
   Come ho detto non parlo francese ma il titolo che accompagnava la foto era facile da tradurre:

L’ECRIVAIN BARTEZZAGHI, CREATEUR DE “ULCERE”, EST MORT

   Sorrisi per l’ironia del titolo e della foto. Mi alzai, appallottolai il giornale e lo gettai in un cestino. Mentre mi dirigevo verso est, costeggiando la Senna, per andare in albergo a rifare le valigie, dissi fra me e me:
   “Solo io conosco il Pittore.”
   Il giorno dopo avevo l’aereo per tornare a casa, ma non tornai a casa. Quello che ho fatto dopo essere stato a Parigi andrebbe inserito dal capitolo 33 in poi, ma il capitolo 33 non c’è!, perché, credetemi sulla parola, tutto ciò che viene dopo è indiscutibilmente un’altra storia.



RINGRAZIAMENTI



Un sincero grazie a tutte queste persone, per aver contribuito direttamente o indirettamente a liberarmi l’anima esulcerando il corpo: R. Bertocchi, F. Aglieri, Oreste F., don Oreste B., il signor Gardini, Elena G., Tom McNamara, Giampiero Dellanima, V. Baldi, E. Corrente, Michele B., P. Bellicapelli e W. Roscio della GdF di Vasto (CH), Barbara S. Per altri motivi rigranzio invece: Alberto Lanzoni, Paolo W., Massimo Bonazzi, Nicola Rizzoli, il Dottore, mamma, papà, Giorgia, Giulia e tutte le persone care che non sono più vive fisicamente. Ah, dimenticavo: grazie anche a quell’anonimo che scrisse su una panchina “La vita è bella. E’ il mondo degli uomini che fa schifo.”

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