lunedì 5 gennaio 2015

Capitoli da 6 a 10.




6


Così alle 18 circa del 25 dicembre 2006 ero in viaggio per Bologna sulla mia sgangherata Uno 55S verde militare, un vero e proprio cimelio storico ormai. Fischiettavo allegramente sulle note della canzone che passava la radio – “Walk of life” dei Dire Straits – e pensavo a quanto fossi fortunato ad avere una ragazza come Barbara, che amavo, ricambiato, con tutto me stesso.
   Ci eravamo conosciuti due anni prima ad una mostra fotografica che aveva allestito a Bologna insieme ad un’amica anch’essa fotografa. Io ero capitato per caso al vernissage. Stavo passeggiando per le vie del centro con Alberto, un amico, quando lui disse:
   “Perché non diamo un’occhiata a questa mostra? Il proprietario del locale è un ceffo che conosco!”
   Eravamo proprio di fronte l’ingresso oltre il quale si teneva l’esposizione fotografica. I cartelloni pubblicitari mostravano una foto in stile Mapplethorpe di due corpi (un uomo nero e una donna bianca) avvinghiati in modo inequivocabile.
   “Perché no!?” risposi.
   Quando fummo dentro rimanemmo abbastanza scioccati, per quanto adulti e vaccinati, nell’osservare tutti quegli scatti di corpi nudi intrecciati in pose erotiche degne del kamasutra più ardito. Erano immagini forti ma indubbiamente affascinanti.
   Fu Alberto a ridestarmi dal rapimento estatico di cui ero vittima quando mi presentò Giulio, il proprietario di quel piccolo atelier. Fatte le presentazioni Giulio insisté per farci conoscere le autrici di quelle foto, le quali stavano intrattenendo alcuni amici o visitatori o entrambe le cose al tavolo degli aperitivi.
   Quando strinsi la mano a Barbara e la guardai negli occhi, qualcosa mi si sciolse dentro e capii che per la prima volta nella mia vita mi era bastato un semplice sguardo per perdere completamente la testa.
   “Pia… piacere, Fifilippo!” riuscii a balbettare.
   Ora, se fossi nelle vesti di editor, probabilmente cancellerei questa parte melliflua, ma siccome sono qui nella doppia veste di autore ed editor, e dunque non permetterò a nessuno di toccare anche una sola virgola di questa storia, lascio tutto com’è perché per quanto superfluo e banale questo interludio rievoca in me ricordi piacevoli, nonostante il sisma che mi ha travolto tempo dopo.
   Parlammo per una ventina di minuti e quando mi lasciò il suo biglietto con il numero di cellulare evidenziato strizzandomi l’occhio, intuii di aver fatto breccia…
   “Nobody’s wife” di Anouk mi distolse dai miei vagheggiamenti amorosi, ma solo per qualche minuto, perché quando il buon vecchio Umberto Tozzi attaccò con “Ti amo” andai in brodo di giuggiole e mi misi a fantasticare di nuovo, questa volta però non al passato, bensì proiettato nell’immediato futuro: il 27, un mercoledì, io e Babi saremmo partiti per Parigi a trascorrere l’ultimo dell’anno.
   Alle 19 e 15 circa stavo infilando la chiave nella porta del mio appartamento.



7


A questo punto ci sta a pennello un excursus riguardante la vita del protagonista. Ma chi è il protagonista di questa vicenda (sur)reale? Saul Bartezzaghi, noto autore di libri e vedrete presto cos’altro, o sono io, Filippo Corona, editor passato momentaneamente sull’altra sponda per diventare narratore? Senza dubbio il protagonista è Saul, dunque diciamo che è venuto il momento della digressione storica sulla vita del coprotagonista.
   Sono classe ’68 e prima di Natale 2006 vivevo a Bologna, ero in procinto di sposarmi, avevo un lavoro che nonostante tutto mi piaceva e mi appagava. Alla periferia del capoluogo emiliano vivevano i miei genitori, pensionati entrambi da qualche anno. Mamma Piera era stata segretaria in una ditta contabile; papà Orlando aveva fatto il fornaio tutta la vita insieme al fratello, lo zio Ugo, ereditando il forno da nonno Alfonso. Avevo trascorso un’infanzia serena e un’adolescenza tutto sommato tranquilla, fatta di travagli, gioie, illusioni, delusioni, amoretti, ribellioni, superandola senza traumi particolari. Avevo studiato da ragioniere convinto da mamma, che con la sua mentalità pragmatica, diceva che una volta finiti gli studi avrei trovato facilmente lavoro (probabilmente!) nella stessa ditta dove lavorava lei. Ma dopo essermi diplomato abbastanza agevolmente, avevo capito che i conti e i numeri non erano compatibili con il mio DNA. A me piaceva leggere e la letteratura in generale, così quando a ventiquattro anni lessi sul “Resto del Carlino” che una piccola casa editrice cercava un correttore di bozze, mi dissi perché non provare. Non lo avevo mai fatto prima e non sapevo esattamente di cosa si trattava ma il boss Giordano Fagioli non cercava gente con esperienza. Mi diede un testo da correggere come prova d’assunzione; due settimane dopo avevo la mia scrivania e il mio sgabuzzino-ufficio all’Editrice Cisco Ribelle. Presto divenni editor, anche se alla Cisco editor e correttore di bozze sono un tutt’uno vista l’”abbondanza” di personale (quattro persone compreso il boss). Da casa dei miei genitori mi trasferii in affitto in via Zamboni, nel centro di Bologna, dove per andare al lavoro impiegavo cinque minuti di pedalate in bicicletta. Le mie giornate si sono sempre divise tra lavoro, amici, ragazze e stadio la domenica quando giocava in casa il Bologna. Mi sono sempre sentito una persona di mondo, con una mentalità aperta e una visone sinistrorsa della vita; d’altro canto nella città rossa per eccellenza è difficile non averla, come è difficile non amare i piaceri luculliani prodotti da cibo e vino, marchi di fabbrica per un bolognese doc.
   A trentotto anni e con le felici prospettive che mi si aprivano innanzi nell’immediato futuro, potevo ritenermi un uomo sereno con una vita normale ma piacevolissima. Credevo di sapere molto del mondo e delle persone, avevo fiducia sia in questo che in quelle. Crollò tutto.



8


Entrai in casa e subito notai qualcosa di strano. Un leggero sottofondo musicale proveniva dalla mia camera da letto e nell’aria c’era un vago odore di marijuana. Potevo benissimo aver lasciato acceso lo stereo insieme a uno dei miei incensi rilassanti ma qualcosa, il famoso sesto senso forse, mi suggeriva la presenza di una persona. Accesi la luce del mini-soggiorno e spalancai la porta socchiusa della camera da letto. Nella penombra riconobbi Saul: nei suoi occhi riverberava una luce demoniaca! Era seduto sulla sponda del letto e fumava una canna ormai agli sgoccioli.
   “Ciao Pippo, quanto tempo eh?!” disse con voce roca.
   “Saul! Che ci fai qui?”
   “E’ una storia lunga…”
   Intanto avevo acceso anche la luce della stanza e ora potevo osservare meglio il volto dell’amico: non era fatto di droga, ma pensandoci a posteriori se avessi dovuto partecipare a un concorso fotografico il cui tema era “la pazzia”, avrei senza dubbio immortalato la faccia di Saul e partecipato con quella. Sentii una sottile angoscia crescermi dentro.
   “Come hai fatto a entrare?” chiesi.
   “Ricordavo ancora il vaso dei fiori all’ingresso. Non hai cambiato nascondiglio alle chiavi di scorta in questi anni!”
   “Già, lo sai, non mi preoccupo molto: se entra un ladro il massimo che può rubare è qualche confezione di cibo surgelato o i libri sugli scaffali. Dubito però che siano articoli di interesse per un topo d’appartamento. I libri poi, non li legge più nessuno!”
   Sorrise. Cercai di assumere un atteggiamento rilassato e dissi:
   “Beh, abbiamo tempo per parlare. Intanto posso offrirti qualcosa da bere? Vino? Birra? Vuoi un Campari?”
   “Ho portato un paio di bottiglie di Pinot grigio, le ho messe in frigo.”
   “Oh, benissimo. Ne stappo subito una.”
   Presi una bottiglia e due bicchieri e tornai in camera da letto. Versai il vino e porsi un bicchiere a Saul.
   “A questa serata memorabile!” disse in tono ieratico alzando il bicchiere.
   Sorseggiammo il vino poi, passato un momento di silenzio imbarazzato, aggiunse:
   “Siedi Pippo, come ti dicevo, è una storia lunga…”
   Sedetti sulla sedia della scrivania di fronte a lui e un brivido inaspettato mi corse lungo la schiena.



9


Roberto Bartok era stato trovato crocifisso all’attaccapanni di casa sua con il pene mozzato e infilato in bocca. I testicoli erano stati incollati con il super attak uno su un occhio e uno sull’altro. Disegni che richiamavano lo stile surrealista di Dalì gli ricoprivano tutta la superficie del corpo. Aveva lo sfintere anale sfondato dalla testa marmorea di un grosso Buddha in miniatura e il cranio fracassato da cui fuoriusciva materia cerebrale. Giornali e telegiornali non riferirono nulla di tutto ciò: gli investigatori incaricati del caso non volevano che le notizie trapelassero per non compromettere le indagini su un omicidio che appariva immediatamente opera di un serial killer. Era il 9 ottobre 2003 e una Firenze avvolta nelle luci soffuse del tramonto era lo scenario del delitto, scoperto dalla donna delle pulizie di Bartok, la quale tra l’altro ebbe un infarto (probabilmente provocato dalla scena raccapricciante a cui aveva assistito) e morì poco prima dell’arrivo della polizia.
   La vittima era professore di educazione fisica al liceo classico “Mario Sciaccaluga” di Pisa e si trovava nella sua villetta a pochi metri dalla riva dell’Arno per trascorrere alcuni giorni di ferie. Viveva solo, in compagnia di due gatti siamesi.
   “Sapessi che emozione sfondargli quella testa di cazzo!” mi disse Saul con un piacere orgasmico che gli illuminava il volto.
   Io lo ascoltavo incredulo. Ricordavo il caso Bartok (i giornali, istruiti dalla polizia, riferirono che l’assassinio era probabilmente opera di un drogato in cerca di soldi che vistosi scoperto aveva ucciso colto dal panico) e ricordavo anche che dopo pochi giorni di clamore mediatico era finito nel ripostiglio delle morti senza interesse spettacolare. Sentire Saul Bartezzaghi attribuirsi la paternità di quell’orrendo delitto mi faceva stare male. Ci eravamo visti e parlati poche volte dal 1997 a oggi, ma pensavo di conoscere bene quell’uomo stravagante, arguto e sensibile, oltre che estremamente colto e intelligente; stentavo a crederlo capace di un tale, efferato assassinio.
   Saul raccontò che Roberto Bartok era insegnante già all’epoca in cui frequentava il liceo a Pisa. Disse che una volta, durante l’ora di educazione fisica, davanti a tutti i compagni il professore lo aveva umiliato chiamandolo “Cappella d’Elefante”.
   “Tutti si misero a ridere. Erano a conoscenza delle dimensioni “esagerate” del mio pene e in particolare del glande e sentire il prof. che mi apostrofava in quel modo era uno spasso per i miei compagni. Per mesi mi rimase l’etichetta di “Cappella d’Elefante”… C’è chi pagherebbe per un membro come il mio, ma per me era un motivo d’imbarazzo… Forse il professore aveva voluto punirmi per aver rifiutato le sue avances una settimana prima: ero rimasto solo io nello spogliatoio della palestra, mi stavo asciugando dopo la doccia quando Bartok mi sedette accanto e cominciò a carezzarmi una coscia nuda. Poi mi prese una mano e se la poggiò sul pacco; era eccitato, ma io – passata la paralisi arrecatami dallo sbigottimento – mi alzai velocemente e lo mandai a fanculo. “Che cazzo fa brutto pederasta di merda!” gli gridai in faccia. Lui non parve spaventarsi dalla mia reazione, anzi, si mise l’indice sul naso nel gesto di fare silenzio, e dopo avermi strizzato l’occhio se ne andò. Come puoi immaginare rimasi scioccato, ma il “Cappella d’Elefante” davanti a tutti mi turbò molto di più… Dopo quella volta non provò più a toccarmi, anche perché evitai di rimanere per ultimo negli spogliatoi. E non mi chiamò più nemmeno “Cappella d’Elefante”. Per giorni piansi nella solitudine del mio letto. Non raccontai mai a nessuno dell’accaduto, ma giurai di vendicarmi un giorno.”
   “E ti sei vendicato!” riuscii a dire. Mi pareva che le parole non uscissero dalla bocca, bensì riecheggiassero da un luogo lontano.
   “Sì l’ho fatto, come mi sono vendicato di tante altre persone…”
   “Hai ucciso altre persone?” chiesi, e mi vennero in mente i numerosi casi di gente scomparsa e omicidi irrisolti degli ultimi tre anni.
   “Sì, ma non lo avrei mai fatto se non avessi avuto la gastrite!”



10


Un paio di capitoli fa non era fondamentale la descrizione sintetica del mio passato, ora però diventa molto importante un flashback sulla giovinezza e sul percorso di crescita di Saul.
   Se si vanno a studiare i profili psicologici dei più famosi assassini seriali della storia (da Jeffrey Dahmer a Ted Bundy, da David Berkowitz a Andrei Chikatilo, passando per i nostri Donato Bilancia, Luigi Chiatti e Gianfranco Stevanin) si noterà quanti aspetti comuni avessero le loro storie preadolescenziali e adolescenziali. Questo lo so perché anni fa feci, per motivi di lavoro, una ricerca sui serial killer: dovevo controllare il manoscritto di un autore che stava pubblicando con noi un saggio sui più noti criminali psicopatici degli ultimi due secoli. Cosa avevano in comune il novanta percento di costoro? Un infanzia di umiliazioni subite, violenza, miseria, soprusi, incomunicabilità. Spesso, come concausa scatenante la pazzia, si riscontravano disfunzioni sessuali o traumi della libido. In una psiche labile si andava così a insinuare il germe della follia omicida, la quale diventa un’esigenza compulsiva da placare con la… morte.
   Anche se non mi sento di definire Saul né un pazzo né un serial killer (questa affermazione apparirà meno aberrante più avanti, forse), anche lui aveva subito danni psicologici da ragazzino. Figlio unico, aveva per madre una donnina insignificante soggetta a crisi depressive e incapace di amare. Il padre era un camionista spesso assente, violento e alcolizzato, che picchiava il giovane Saul accusandolo di essere omosessuale.
   “Con quel batacchio che la natura ti ha fornito” gli diceva, “non ti vedo mai con una ragazza. Sei una checca schifosa! Ma io t’ammazzo, per quant’è vero iddio!”
   E giù botte. Saul si isolava, faceva fatica a comunicare anche con i suoi coetanei, i quali lo prendevano sempre in giro per la sua timidezza e per quel pene enorme, che se per loro sarebbe stato motivo di enorme orgoglio, per lui era fonte di disagio.
   A diciannove anni ci fu una prima svolta nella vita di Saul. Il padre morì in un incidente stradale mentre guidava il camion ubriaco fradicio. La madre venne ricoverata di lì a pochi mesi in una clinica psichiatrica dove morì poco più tardi. A quel punto Saul, conseguito il diploma al liceo classico, partì per l’estero: Spagna, Portogallo, Inghilterra. Faceva lavoretti interinali e viaggiava. Intanto scoprì la passione per la scrittura. Nel ’92 tornò in Italia, a Pisa, dove era nato e aveva sempre abitato. Con i soldi guadagnati aveva pubblicato il suo primo libro di poesie con l’Editore Nuovo Autore di Milano. Nel ’94 era ripartito per l’estero, destinazione Stati Uniti, viaggio da cui sarebbero poi nati la maggior parte dei racconti inseriti in “Sbronze road”. Due anni più tardi tornò a Pisa per rimanervi a lavorare al suo primo romanzo “Se” e successivamente a “Sbronze road”. Viaggiare lo aveva sicuramente affrancato dai fardelli della sua personalità violentata. Aveva avuto diverse avventure amorose; di una ragazza spagnola si era particolarmente innamorato e in America aveva avuto una storia importante con una ragazza di colore del Mississippi. Anche se a un primo impatto molte ragazze si spaventavano quando vedevano il pene eretto di Saul, una volta “fatta l’abitudine” il sesso con lo Stallone Italiano (come lo chiamava la ragazza di colore) era tutt’altro che spiacevole: Saul era un amante dolce e focoso al tempo stesso, e molto attento alle esigenze della propria partner.
   Quando nel ’97 lo conobbi, a ventisette anni, era l’archetipo dell’uomo libero, mentalmente, spiritualmente ed economicamente (oltre ad aver guadagnato lavorando in giro per il mondo, la madre gli aveva lasciato una cospicua eredità), un uomo intelligente e colto che aveva letto i classici americani dell’Ottocento e Novecento e amava la letteratura moderna europea. Come me non disprezzava il buon cibo, il buon bere e le belle donne. Amava la vita insomma e sapeva destreggiarsi nel mondo “fottendosene” di tutto e tutti. Lo ammiravo per questo, ma non solo: Saul era affascinante in maniera ipnotica, era bello di una bellezza oggettiva, aveva un fisico atletico e vestiva in un modo trasandato che addosso a lui faceva molto “anarchico”. Uno così è un bersaglio ideale per le critiche dei filistei ottusi che dominano la società, ma lui sapeva di essere e si sentiva al di fuori della massa, al di sopra aggiungerei. L’ultimo dei bohemièn pensai quando lo conobbi.
   Poi un giorno, come mi stava spiegando, quel forte mal di stomaco…


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